venerdì 28 aprile 2017

Valentina Marzo

Sono solo quarantotto ore che hanno inizio con il tintinnio delle medaglie dei rosari dei pellegrini che scendono le scale della segreteria e terminano con il rumore triste e mesto delle ruote dei trolley dei confratelli che, sabato mattina, tornano a casa attraversando una via d’aquino che stiracchiandosi inizia la giornata.

C'è chi dice che è sempre lo stesso, che la processione è noiosa, ripetitiva, le solite facce, le solite musiche. Ma non è così. Fin da quando ho memoria non ricordo una processione uguale ad un'altra.

I primi ricordi sono quelli di bambina spaventata, attaccata alla gamba del papà perché intimidita dai cappucci bianchi. Qualche anno più avanti ero incuriosita ed osservavo con attenzione ogni movimento, ogni gesto. Mi chiedevo cosa si provasse a camminare scalzi, cosa pensassero sotto il cappuccio, perché alcuni di loro piangevano, se sentivano freddo.

Poi intorno ai tredici anni ho capito. Ero in mezzo alla folla e cercavo di scorgere il troccolante che piano si avvicinava al portone. Si era creato un silenzio surreale. Tutti erano fermi ad aspettare col fiato sospeso. Terminata l'ultima marcia si sentiva solo il suono forte della troccola, quasi come se il troccolante non volesse fermarsi; poi qualche secondo di silenzio e i tre colpi contro il portone che si spalanca. in quel momento, per la prima volta, ho pianto.

Da quell'anno attendo queste ore con impazienza.

Questi sono quei giorni in cui, ripenso alla bambina spaventata che ero e al percorso che sto facendo, alle persone care che mi hanno accompagnatoIn questi giorni sento più forte che mail il richiamo delle radici, delle origini e mi sento parte di un qualcosa che c'era, c'è e ci sarà.

Sono gli unici giorni in cui la città sembra fermarsi, mettersi in pausa, i giorni in cui la frenesia del quotidiano cede il passo al silenzio, in cui i rumori quotidiani sono ‘ovattati’

No, non è sempre la stessa processione, non può essere sempre la stessa processione